La Croce, dal dolore all’amore contemplato e vissuto

Il venerdì santo celebrato dal vescovo Orazio Francesco Piazza

Giovanna Corsale “Come dolorosa crisalide, la Croce, madre che genera creature nuove”. All’immagine della farfalla che sta per assumere il suo aspetto definitivo, il vescovo mons. Orazio Francesco Piazza associa quella della Croce che ha accolto l’ultimo respiro di Gesù nei suoi versi, che colgono quell’ “Amore che incontra il dolore, fino a sprofondarsi in esso, ma perché si rinnovi e si trasformi in nuovo amore”.

“La contemplazione della Croce Madre genera nuove creature alla vita con lo sguardo di chi nella propria esistenza vede crocifissa la propria carne nella Sua” è il segno di un’esperienza dolorosa, ma nel contempo “realistica”. Ciò che si verifica “dinanzi al costato aperto del Signore” è una “metamorfosi”, da qui il titolo che mons. Piazza attribuisce ai suoi versi poetici pubblicati già ieri mattina attraverso i canali social della Biblioteca diocesana San Tommaso d’Aquino, è l’espressione del “mistero di un dolore che prende la forma dell’amore”.

“Questo mistero ci riguarda tutti”, ribadisce il Vescovo poi nell’omelia dell’azione liturgica di Venerdì Santo celebrato presso la Cattedrale di Sessa Aurunca, “un mistero – prosegue – che si rinnova nella nostra esistenza ogni volta che facciamo esperienza della sofferenza”. Cosa accade quando l’animo è offuscato dall’angoscia e dalla paura? “Entriamo in un cono d’ombra, la parola si spegne nel cuore, vi si aprono voragini in cui si innesta anche il dubbio della fede”, incalza il Pastore, citando l’evangelista Giovanni, ‘si fece buio su tutta la terra’. Gesù, negli istanti prima di spirare, sopraffatto dal dolore lancinante dei chiodi, lì su quella Croce “invoca il Padre, perché venisse liberato dall’angoscia”. Così noi, nel contemplare la sofferenza del Signore, “dobbiamo trovare coraggio e confidare in Lui”, in maniera assoluta e senza riserve, perché “quando si ama veramente si è pronti a tutto”. È questa la “motivazione con cui possiamo affrontare la tragedia dell’umano”, nella consapevolezza che “l’amore di Gesù è arrivato sino alla fine; in senso temporale, cioè fino all’ultimo respiro, e spaziale, cioè con tutto il cuore”.

Anche nella condizione di paura cieca e di disorientamento totale, bisogna ancorarsi al pensiero che “Gesù è stato liberato dalla morte”, dal momento che il suo dolore ha costituito per l’umanità riscatto e rinnovamento, indici di un amore inesauribile. “Gesù è stato esaudito”, dimostrando che la morte non ha più potere alcuno su di Lui, perché “la morte non può vincere l’amore che rimette in movimento la vita. Perché la sofferenza abbia un senso, occorre tenere conto che il “valore della Croce” risiede in tre passaggi: “Talamo, trono e altare”. Affinché, dunque, la Metamorfosi accada, “noi dobbiamo sposare la Croce; in secondo luogo, non lasciarci schiacciare dalle tensioni, dalle paure, ma affrontarle, ossia affermare la nostra signoria; infine, diventare altare, ossia nuova vita e coraggio, confidando in Dio Nostro Padre che ci esaudisce”.

Con dignità e compostezza Gesù tiene testa all’atroce dolore che lo attraversa, rimettendosi alla volontà del Padre e chiudendo gli occhi. Ma la luce vera, quella che porta salvezza e speranza “quel lumicino”, come lo definisce il Vescovo, promana dal Suo costato sanguinante, che trova la sua traduzione plastica più degna nel Cristo crocifisso del pittore spagnolo Diego Velázquez.

Fonte Clarus